Povero Giuseppe! Viveva allo sbando, come un cane randagio. Aveva 36 anni e metà dell’esistenza l’aveva consumata nel carcere. La mala sorte un po’ se l’era voluta da solo, per quella dissennata anarchia che gli covava nell’anima e lo rendeva irriducibile ai nostri canoni di persone perbene. Ma una buona porzione di sventura gliela procuravano a rate tutti quanti. A partire da me che, avendolo accolto in casa, gli facevo pagare l’ospitalità con le mie prediche... per finire ai giovanotti del bar vicino alla stazione che gli pagavano la bottiglia di whisky per godersi lo spettacolo di vederlo ubriaco...
Quell’anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta, dedicato alla Madonna dei Martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato alla dignità di Basilica Minore.
La città era in festa, e per il singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di preghiera che si tenne nel Santuario. Poi, prima di andare a dormire tutti, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa.
Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica Minore.
Gli risposi dicendo che “basilica” è una parola che deriva dal greco e significa “casa del re”, e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l’altro disse che aveva studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re era per lui scontatissimo. E insistette testardamente: «Lo so cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica Minore?».
Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatta una cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma, e Basiliche Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un’assemblea che mi interpellava, e davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull’argomento.
Mi venne però un lampo improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica Minore è quella fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne. L’uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica Maggiore è questo bambino, è questa vecchietta, è il Signor Cardinale. Casa del Re!».
Il Cardinale annuiva benevolmente col capo Forse mi assolveva per quel guizzo di genio.
La veglia finì che era passata mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il Santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada commentavamo insieme la serata, mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi.
Ma ecco che, giunti davanti al portone dell’episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c’era lui, Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me, mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, Basilica Maggiore o Basilica Minore?». «Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire.
Quell’anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta, dedicato alla Madonna dei Martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato alla dignità di Basilica Minore.
La città era in festa, e per il singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di preghiera che si tenne nel Santuario. Poi, prima di andare a dormire tutti, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa.
Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica Minore.
Gli risposi dicendo che “basilica” è una parola che deriva dal greco e significa “casa del re”, e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l’altro disse che aveva studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re era per lui scontatissimo. E insistette testardamente: «Lo so cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica Minore?».
Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatta una cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma, e Basiliche Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un’assemblea che mi interpellava, e davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull’argomento.
Mi venne però un lampo improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica Minore è quella fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne. L’uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica Maggiore è questo bambino, è questa vecchietta, è il Signor Cardinale. Casa del Re!».
Il Cardinale annuiva benevolmente col capo Forse mi assolveva per quel guizzo di genio.
La veglia finì che era passata mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il Santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada commentavamo insieme la serata, mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi.
Ma ecco che, giunti davanti al portone dell’episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c’era lui, Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me, mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, Basilica Maggiore o Basilica Minore?». «Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire.
don Tonino Bello
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