La nostra basilica.

La nostra basilica.
Era ormai necessario darsi una pagina internet.

sabato 27 settembre 2014



Pubblicato Sabato, 27 Settembre 2014 10:51 | Scritto da Maria Rosaria Greco




Qui c’è la tela immacolata del quadro che dipingerò. Lì vicino c’è L’Aquila, anche se ancora non la vedo. Ne sento battiti e respiro, ma forse è solo un’illusione. Sto per prendere il pennello, i colori sono ben sistemati sulla tavolozza. Alzo lo sguardo con timore, eccola! E senza volerlo infilo le unghie nella tela, la squarcio, e grido contro il Cielo. Devo forse dipingere di nero? Un quadro nero? Devo disegnare una notte senza stelle? Non ce la faccio. Ma non posso e non voglio arrendermi prima di cominciare.
Inizio a passeggiare, mi hanno detto che il centro della città non esiste più, ma io non ci credo. Che cosa vuol dire non esistere? Percorro le strade che avvolgono il centro, strette dall’abbraccio della montagna madre. La natura volge placida il suo sguardo da ogni curva, da tutte le angolazioni. L’Aquila è circondata dai monti. Mi chiedo se quella notte gli animali selvatici hanno provato paura!
Devo entrare in Corso Vittorio Emanuele, il salotto buono della città. Anche se mi hanno detto che non c’è più né salotto né vita. Mi hanno detto che le case sono ferite a morte, ma io non ci credo. Da lontano vedo sagome alte, sono palazzi, si sbagliano tutti.
Entro con i miei sandali bianchi e pieni di strass, inadeguati, fuori dal mondo. Fanno rumore, lo sapevo già, ma non credevo così tanto! L’eco dei passi mi terrà la mano, sarà compagnia e spettro, darà vita a un fluido circolo di emozioni che farà il giro del mio corpo ad ogni battito di cuore. Alla fine del mio viaggio avrò incontrato circa venti persone, attonite come me, e quattro bar funzionanti. Me l’aveva detto una signora polemica che avevo incontrato poco prima:
“Hanno riaperto solo i bar, questo sono stati capaci di fare per i nostri ragazzi”. Polemica. O fottutamente sincera.
È scesa la sera, ed io sono entrata nel cuore della città.
L’Aquila. Vi ricordate di quella notte in cui fu colpita dal terremoto? 309 morti, vi ricordate? 6 aprile 2009, nessuno può aver dimenticato. Ma tra il ricordare e il non dimenticare passano rosari infiniti di giorni lasciati lì su un calendario vecchio. Ci passa il tempo e la dimenticanza del cuore. Il terremoto, lo sgomento, il pianto, la rabbia, un’offerta, la frenesia del momento, i funerali, Berlusconi, Bertolaso, i moduli, le case, il G8, le promesse, i discorsi, blablabla e così sia. Certo. Giusto. Ognuno di noi ha ripreso posizione, è tornato nella propria vita, una lacrima, una preghiera e via. Come in ogni tragedia altrui.
L’Aquila. Il corso è stretto e lungo; stradine laterali si staccano, e si aprono come tante scheletriche e fragili braccia che un tempo si elevavano cercando idealmente la libertà della montagna e l’infinito del cielo, e che sono state spezzate. Rumore di ossa spezzate. Il buio mi colpisce per primo. Mi dà il saluto di benvenuto. No, forse no. Prima del buio c’è l’odore. Umido, quello delle case disabitate da tempo immemore, quello di pietra intrisa d’acqua e mai asciugata, verde di muffa. Pietra rinnegata dal sole. Un odore che ricorda il ferro, la pioggia, la solitudine di secoli. Ma in realtà sono passati cinque anni da quella notte. I palazzi, belli come una donna dai lineamenti perfetti divenuta vecchia malata melanconica e moribonda. Bella, che tu lo intuisci da quel riverbero di vita che ancora vien fuori dagli occhi; di vita e di malizia propria delle donne belle.
Su quella via c’era l’anima della città. Palazzi alti e meravigliosi, uffici, negozi alla moda e abitazioni di gente che si sentiva felice e fortunata di potersi permettere una casa proprio lì. Le facciate degli edifici sono completamente ingabbiate, tenute su da sostegni di ferro crudeli come una maschera che nasconde il danno, e pure lo salva, lo conserva, lo consegna alla memoria collettiva che troppo spesso dimentica.
Gabbie come una condanna, a ricordare il dolore. Qui le rovine sembrano eterne. Mi avvicino ai portoni, leggo i nomi sui citofoni, ho voglia di suonare, di sentire la voce di qualcuno chiedere chi è. Ho voglia di entrare in una di quelle case dagli usci eleganti e massicci, giganteschi paradossi che non hanno potuto salvare niente e nessuno; ho il desiderio di aprire un album di fotografie e conoscere i nonni, i figli, i nipotini, e andare a ritroso fino alla settima generazione. E sentire il bau di un cane incazzato che difende il suo perimetro perfetto, e la sua pace. Premo il campanello, non suona, non risponde nessuno, non vedrò mai le immagini di quella storia. Lo sapevo che sarebbe stato inutile, non sono pazza, ma a volte anche gli incubi sembrano reali, e poi ti svegli e tiri un sospiro di sollievo, guardando le tue quattro consolanti mura. Perché stavolta non poteva essere così? Perché non è tutto solo un incubo, un equivoco della mente?
È sera, faccio fatica ad immaginare la città di giorno, e i raggi solari infilarsi in quello scenario opalescente di luna. Non c’è grande illuminazione sul corso dell’Aquila. Non serve, non c’è nessuno. Non c’è ragione che vi sia qualcuno. I lampioni accesi sono pochi e mandano una lucina da calli veneziane, da caffè parigini; ma qui, se in qualche microscopico angolo c’è l’intimità degli amanti e degli scrittori, non si vede.
Avanzando nel silenzio assoluto, protagonista solitaria di un film surreale, incrocio una strada laterale molto più ampia delle altre, e svolto. La solita lucina ovattata, semi senza nome che sono divenuti alberelli sottili e che si mischiano alle ormai familiari impalcature dei palazzi, quasi a formare abbracci di cespugli gravidi di mangrovie, o mani gonfie, mostruose, che pregano. Senza ordine, con una promiscuità che commuove, e neppure un gatto innamorato nella notte. Si è alzato un po’ di vento. Sento dei rumori alle mie spalle, sono le foglie che arrivano da autunni lontani. Non ho paura, c’è tutto un mondo antico che mi guarda e mi parla. Decido di togliermi i sandali, ho bisogno di toccare quella terra, ho necessità di sentirla davvero. È la celebrazione della mia imperfezione, del mio dolore, un rito egoistico a cui non riesco a sottrarmi. Cammino e premo le piante dei miei piedi su quella strada che è piena di muri sbriciolati, il freddo del contatto si diffonde nel mio corpo.
Devo sedermi. Devo piangere. Come se un mare di lacrime potesse restituire la vita. Come se potesse assolvere chi se n’è andato, chi è restato, chi è colpevole. Come se potesse punire la cattiveria di una natura a volte davvero matrigna crudele. Mi alzo e vado via. Piano, dispensando pensieri d’amore. Voglio credere che nessuno sia morto tra quelle pareti che contengono solo spazi aperti, gusci vuoti. Voglio immaginarli vivi e nonostante tutto felici, i nonni i nipotini il cane incazzato e sette generazioni ritratte in foto color seppia.
Torno dove a L’Aquila c’è vita. Perché c’è tanta vita a L’Aquila. Studenti, ragazzi innamorati, famiglie che hanno ricostruito le proprie case, interi nuclei e comunità che vivono nelle “case di Berlusconi”, Chiese. Studenti, già.
Quella notte ne morirono otto nel crollo di una palazzina della
“Casa dello Studente”. Ci vado. Otto foto, qualche maglia stesa sulle solite tristi inutili transenne, scene di vita interrotta brutalmente e visibile dalla strada … ecco, passi di là, via XX Settembre e non trovi parole che possano dare un senso alla tragedia. Passi e vedi porte aperte, il bagno, gli armadi, le cucine aggrappate disperatamente a muri morti. I letti no, non ci sono: quelli crollarono insieme ai pavimenti, quelli accompagnarono il volo finale e fatale di ragazzi che dormivano innocenti e fiduciosi.
La loro casa fu visitata dai tecnici quella sera. Fu detto loro che andava tutto bene. Tutto bene. Una sentenza del 2013 ha condannato quattro persone a pene di detenzione che vanno dai due anni e mezzo a quattro anni. Chissà se servono, se bastano, se donano pace a chi non può più abbracciare un figlio. Chissà se certi errori evitabili si eviteranno dopo tanto dolore. Poco oltre il collegio, uno striscione ormai logoro recita:
“Assassini, ridatemi mio figlio”.
Non si può commentare, e cosa poi? Cammino ancora, e trovo un grande parco. C’è il sole, mamme bimbi altalene e nonni che giocano a briscola. I papà sono a lavorare, non so dove. Alcuni negozi distrutti sono rinati presso i centri commerciali, altri chiusi per sempre col terremoto. Di tanto in tanto ci si imbatte in un edificio ricostruito o ristrutturato, stretto a palazzi danneggiati, caduti, crepati come bicchieri di vetro, case che ricordano quelle che da bambina costruivo con le carte da gioco, una sull’altra … un alito leggero e il castello cadeva distrutto.
L’Aquila. Non ho incontrato una sola persona scortese. Gentilezza e sorrisi, quando non addirittura un atteggiamento disponibile e affettuoso. Quanto è grande quella gente! E alla fine del mio viaggio approdo in una tenda della protezione civile. Ha un nome, quella tenda. Si chiama Parrocchia “Santa Maria Assunta” di Gignano. Una Chiesa. Fuori, un piazzale ampio e polveroso. Una campana sorretta da un corto palo di legno, altre due adagiate per terra poco lontano. Il Parroco è Don Bruno Tarantino, un giovane uomo di origine salentina. Ha tanto da raccontare, e avrebbe tanto da recriminare, credo. Quella notte era lì, la sua casa crollò, e pure la sua Parrocchia. Era quella del quartiere degli studenti, lui li conosceva tutti. Perse parrocchiani, ragazzi e amici. Perse storie. Perse futuro, come tanti, in quella notte di sgomento e disperazione, di devastazione e morte. Io posso solo immaginare l’infinità di sensazioni ed emozioni che provò, lui come tutti. I sacerdoti sono esseri umani, e credo non siano immuni dal provare sentimenti, anche i meno nobili, se e quando la vita decide che deve essere così. Invece nessuna rabbia, nessun conto in sospeso negli occhi e nei gesti di questo sacerdote. Sorrisi per tutti, accoglienza, disponibilità. Si ferma con una signora anziana, la vede abbronzata, le chiede se è andata al mare. Ma il mare è distante da questa terra, e lui lo sa. La signora gli sorride, gli dice qualche parola, di cui una è ‘grazie’.
Poi ci spostiamo e con una sorta di felicità mi invita a visitare un altro cantiere. Lo seguo, e lui mi fa vedere una gettata in cemento, alcune colonne portanti e cento metri di speranza viva. Su quel rettangolo poche settimane fa è stata posata la prima pietra della nuova Chiesa.
Vado via da L’Aquila così. Con la dolcezza e la forza di chi crede nella vita. Vado via da L’Aquila, e so che non posso chiudere il resoconto di questo mio viaggio con la banalità di circostanze fin troppo semplici, servite su un piatto doloroso e alienante. Ma non ho altro da dire, se non che questa città diventa immediatamente tua e tu sua, che ti entra nel cuore, e lì vi rimane per sempre.


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