In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Religione è sempre una parola ambigua, pericolosa. Trova la sua radice nel verbo legare, anche questo affascinante e pericoloso. Legare infatti vuol dire imprigionare, privare della libertà, costringere. Si lega un animale pericoloso, si lega, attraverso le manette, un uomo violento. Si legano la coscienza e la vita, purtroppo, anche con l’uso o forse l’abuso, di precetti e dogmi. Un rischio sempre presente non solo all’interno del mondo ebraico ma anche all’interno delle nostre chiese e delle nostre comunità. Si lega un uomo quando gli si antepone la norma, la morale, il “dover fare” prima dell’”essere”. Ma legare vuol dire anche stringere rapporti, dice la nascita di empatie ed amori. L’amato si lega all’amata perché è la sua possibilità di vita piena. Il Figlio si lega alla madre e al padre per una naturale dipendenza in grado di spalancarlo alla piena libertà. Un uomo si lega ad un posto perché lì vivono i suoi ricordi, il suo passato, il suo presente ed il suo futuro. Pavese scriveva: «Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», e A. de Saint Exupéry nel suo capolavoro “Il piccolo principe” fa dire alla volpe che «addomesticare vuol dire creare dei legami». Le parole hanno una loro vita, non solo dicono la realtà ma a volte la creano, sbagliare parola vuol dire spesso creare o compromettere per sempre un rapporto. Ricordo nella mia adolescenza un’esperienza di ricerca vocazionale fatta presso un ordine religioso. Ci proposero di trascorrere alcuni giorni in un famoso noviziato d’Italia e appena arrivati ci presentarono il “padre maestro”. Accidenti, in un solo uomo la tradizione religiosa aveva unito tutto ciò che Gesù sconsigliava. Mi chiesi e forse chiesi come mai questa palese indifferenza alla Parola del Vangelo, non ricordo la risposta, segno questo che mi fa intuire come fosse stata evasiva e poco convincente. È necessario tornare continuamente alla sorgente della nostra fede, a Gesù, unico volto del Mistero, creare legami con Lui che non “guarda in faccia a nessuno” (cfr Mt 22,15 ss ) non perché sia indifferente ma solo perché preferisce guardare il cuore dell’uomo ed il suo bisogno, che mai può essere colmato da una nostra religiosità, da un nostro impegno moralistico. Gesù oggi mette in guardia la sua chiesa proprio da questa ambiguità: non vuole religiosi che dimentichino l’uomo ma fratelli capaci di condividere, di portare i pesi gli uni degli altri, di farsi servi gli uni degli altri. Solo così la nostra religione, sempre tentata dal misurare il rapporto con Dio dalla larghezza dei filattèri, dalla lunghezza delle frange, dal barocchismo dei titoli, farà il salto di qualità, approdando a quella fede capace di guardare al cuore dell’uomo ed allargarne gli orizzonti per gustare l’Infinito tra le pieghe della ferialità.
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